Martin Parr
“Ambasciator non porta pena”
“Don’t shoot the messenger”
Martin Parr
Questa è la dedica che scrisse Martin Parr su uno dei suoi libri, prima di donarlo a Henri Cartier-Bresson. Sapete perché?
Perché “Ambasciator non porta pena” era stato il modo dissacrante con cui Parr era riuscito a stemperare il clima di disagio con cui era stato accolto all’interno dell’agenzia Magnum. È noto che Parr non stesse simpatico a buona parte dei soci, tanto meno a Henri Cartier-Bresson che lo apostrofò come appartenente ad un altro pianeta.
Con quella dedica, Parr volle chiarire a tutti i componenti di Magnum il ruolo che aveva deciso di ricoprire nei confronti della fotografia: raccontare il volto, qualunque esso fosse, di una società di cui lui stesso si riconosceva partecipe e complice.
La sua chiave stilistica è caratterizzata dal flash sparato a distanza ravvicinata sui soggetti, ripresi con il grandangolo, per enfatizzare colori e inquadrature. Per comprendere meglio la genesi di questa cifra stilistica, bisogna ricordare che Parr ha iniziato a scattare in analogico e in bianco e nero, per poi passare al colore e, successivamente, al digitale.
In alcuni suoi lavori, Parr è riuscito anche a usare obbiettivi macro e flash circolari, forzando la finalità per cui erano stati progettati e adattando le loro caratteristiche alle proprie esigenze espressive.
I teleobiettivi spinti non fanno parte del suo bagaglio, ma per un lavoro dedicato alle spiagge è tuttavia riuscito a usarli, mantenendo comunque vivo il suo stile distintivo.
Il cammino che Martin Parr compie nella società lo porta a percorrere passi all’interno delle liturgie che scandiscono il comportamento umano in diversi ambienti e contesti.
Prima le spiagge della sua Scozia, dove i ruoli sociali sembrano perdere di valore, poi all’interno dei centri commerciali dove il mondo consumistico ci porta ad acquistare cibi, accessori e vestiti di dubbio gusto, per poi passare alle feste paesane dove questo meraviglioso indagatore riprende le nostre ossessioni formate da tic e cliché.
Inconsapevoli, ci ritroviamo non burattini al suo servizio, ma interpreti delle nostre storie, protagonisti di questo tempo post bellico, cartoline da tramandare ai posteri.
All’interno del suo talk alla Cineteca Comunale di Bologna, il 27 ottobre 2017, Martin Parr dichiara:
“Fotografare il mio paese per me è stata come una terapia: mi ha permesso di tirar fuori e di capire che cosa di preciso amo e che cosa odio del paese in cui vivo. Negli anni Ottanta, gli anni di Margaret Thatcher, che personalmente detestavo, ho usato questa motivazione per esplorare gli aspetti sociopolitici dell’Inghilterra… Kitsch? Per me è un complimento.
Ci sono fotografi che odiano i cliché. Io li adoro. È attraverso i cliché che si capiscono le cose. Mi metto veramente a cercarli e di solito li trovo. Hanno sempre un fondo di verità”.
Ho desiderato inaugurare questa parte del blog che riguarda i Grandi Fotografi con il fotografo che più mi diverte. Fuori dagli schemi, pur rimanendo aderente al racconto che vuole divulgare, riesce a farmi vedere oltre. Martin,