La Sicilia non è un luogo come tanti altri. Il sole che batte non brucia la terra. Le sconfitte lasciano cicatrici, ma tra le pietre – o sulle autostrade – nascono fiori.
Per strada c’è odore di cibo e un’esplosione di colori, di petali profumati o disegnati sulla ceramica. Il mare accoglie turisti e corpi disperati, ma è sempre blu, per tutti. Le rovine di un mondo antico e glorioso si riflettono nei ruderi lasciati da chi ha dilaniato questi luoghi e i suoi figli.
Ho visto persone rassegnate all’incuria, ma nessuno che si fosse realmente arreso. Ho visto città in cui ho ringraziato di non essere nata e case a cui mancavano pezzi. E poi ragazzi. Ecco, i ragazzi. Li ho visti giocare a pallone di fronte alle chiese e ne ho visti altri ricordati nei murales della Vucciria. Eppure, anche se tutti diversi, ho sperato che ognuno di loro avesse un sogno.
In Sicilia, quando muore una persona viene appeso un manifesto per ricordarlo. Come in molti altri posti, certo. Ma in Sicilia, è il tempo a staccarlo dal muro. Solo il tempo che, lento e inesorabile, consuma la carta e il dolore. Bisogna lasciare correre, scorrere, vivere.
L’Etna sbuffa. Le serre abbandonate riflettono il sole del tramonto. I vigneti si addormentano. Le capre smettono di arrampicarsi sulle rocce e tornano ai propri ripari. E i turisti si cambiano d’abito, prenotano un ristorante, scattano una foto ricordo.
La Sicilia è servita, nelle sue contraddizioni e nei suoi dolori. Ma anche nella sua straziante e straripante bellezza.